vuless sta quieto

18 agosto 2011
LE SETTE SORELLE domenico fauceglia
Addimanno remessione a lo munno
ca p' 'a vita m'he rialato tutte cose
'o vattecore d' 'o mmare
'o schiassiatorio d' 'a bordaglia
'no criaturo garbato
ca m'accatta nu ggelato
a 'nu marpione ca fa 'o cardascio
ca tomo tomo, lillo palillo
t'arrobba 'e cose toie.
 
Addimanno remessione a lo munno
ca 'ntra priezze e afflizioni
nun aggio avuto maje 'a capacetà
'e fa 'nu surriso
nun aggio ditto maje
vide giove comm' è lucente
fuorze pecchè nun aggio
aizato 'a capa,
'sta vita spercia currecurrenno
e io aggia appassà
'e 'ntuppi 'e pressa.
 
Surridere a 'na savorra
so' surrisi perzi,
ma l' aggia fa
chella pazzaria
ca m'affaccio a fenestra
e me summuzzo dint' 'o mmare 
e trovo  quiete.
 
domenico fauceglia
 

le sette sorelle nuova teoria sulle tradizioni popolari campane

18 agosto 2011
LE SETTE SORELLE domenico fauceglia
Scoprire nelle forme espressive popolari una sorta di linguaggio primordiale, carico di significati e valori che sono andati perduti nella massificata comunicazione della nostra contemporaneità, è uno dei massimi obiettivi di ogni studioso dei comportamenti umani.
La più grande risorsa di questo sapere antico è, per nostra fortuna, ancora custodita nella tradizione dei contadini, ovvero delle comunità più semplici e isolate. Queste genti si servono di un canale di comunicazione privilegiato, che è rimasto intatto per millenni: quello della musica, del canto e del ballo.

In questa introduzione affronterò lo studio della cultura contadina della Campania, nel sud Italia, appunto come proiezione della sua forma espressiva più genuina ed antica: la “tammurriata”. La tammurriata prende il nome dal suo strumento principe, la “tammorra” o “tammurro” (un tamburo sostenuto con una mano e suonato con l’altra), e la sua interpretazione prevede tre ruoli: il suonatore di tammorra (detto “tammorraro”), il cantante ed almeno una coppia di ballerini.

Nel paragrafo Cenni storici traccerò un quadro storico della tammurriata, sfiorando brevemente le epoche più significative per il suo sviluppo, dalle sue origini (presunte) fino ad oggi.
Ne Il mito e la fede affronterò l’analisi della matrice mitologica della tammurriata, e quindi della cultura contadina, ed evidenzierò gli elementi arcaici conservati nel rito anche dopo l’adozione della religione cristiana.
A questo punto tratterò Il culto delle sette Madonne campane, e mostrerò il percorso che ha portato i contadini a sostituire la venerazione per Artemide, con quella per Diana e quindi per la Madonna, identificando le tre divinità in un’unica dea Madre della fertilità e dell’abbondanza.
In Erotismo e spiritualità introdurrò il denso apparato di simboli di natura magico-rituale che appartengono alla quotidianità del mondo contadino, e poi estrapolerò questi simboli dal testo della Tammurriata per la Madonna dei Bagni.
Infine, nel paragrafo Tra sogno e realtà: la festa, cercherò di dare un’idea dell’importanza del “contesto” di una tammurriata, riportando una coinvolgente testimonianza sulla festa per la Madonna di Materdomini.


CENNI STORICI


La voce del popolo contadino che ha abitato il territorio campano, dalle pendici del Vesuvio ai monti che affacciano sulla Costiera Amalfitana, conserva ancora oggi una forte eco nella tammurriata. Tramandata nei tempi antichi col nome di “canzuna 'e copp' 'o tammurro” (ossia canto sul tamburo), la tammurriata non è semplicemente una forma d’espressione musicale popolare. Essa è il nucleo vitale del mondo contadino, e porta con sé precetti, insegnamenti, dogmi e tabù che hanno a che fare con le sfere della religione, della sessualità, delle credenze, della vita di ogni giorno.
Oltre che denso apparato di simboli e doppi sensi, la tammurriata è anche l’occasione nella quale si cerca di dare sfogo alle angosce, alle frustrazioni e alle paure quotidiane. Essa è dunque un modo efficace per esorcizzare le cause del disagio sociale e spirituale, attraverso una sorta di azione catartica che veicola una vera e propria maieutica del corpo sociale collettivo.

Quando è nata la tammurriata? Quali “ingredienti” hanno permesso la sua nascita?

Le origini della tammurriata vanno ricondotte almeno al V secolo a.C., periodo in cui gli antichi greci giunsero in Italia e crearono delle colonie in tutto il Meridione.
Il canto degli antichi greci, eseguito col tamburo, mise immediatamente le radici nell’entroterra campano, anch’esso strettamente legato al mondo agricolo e al culto delle divinità che proteggevano le messi e il raccolto.
La tammurriata va allora considerata il frutto dell’incontro di diverse culture contadine del Mediterraneo, e Napoli il luogo principale d’attrazione di queste molteplici correnti culturali.
L’estrema vitalità della cultura contadina a Napoli si registra ancora nel ’500 favorita dal continuo afflusso nella città di masse di contadini del sud. Quest’esodo era dovuto alle tragiche condizioni di vita imposte dal regime feudale, che provocarono l’abbandono delle terre e il riversarsi nella capitale di migliaia di contadini alla ricerca di una realtà meno disumana.
Il massiccio inurbamento fu anche favorito, peraltro, dalla politica del governo spagnolo, che conferiva esenzioni dalle tasse ai cittadini napoletani per creare una capitale forte e popolosa, tale da opporsi al potere dell’aristocrazia feudale e del clero (disegno che poi sfuggì pericolosamente allo stesso governo, per cui si fu costretti a proibire l’edificazione di nuove abitazioni nella città, dando luogo al formarsi di zone di emarginati nei quartieri sistemati alla periferia urbana, tuttora connotata da malessere sociale).
La città di Napoli, prima di essere decimata dalla “peste nera” del 1656, era la maggiore capitale europea, e quindi era un crogiolo di culture, da cui la tradizione contadina, sempre presente nell’area urbana, ha assorbito di continuo nuova linfa.
Nei tempi moderni, con l’industrializzazione della città partenopea, la cultura e le tradizioni contadine sono rimaste legate solo ai luoghi di culto nella capitale, oppure alle province campane la cui economia era diffusamente basata sull’agricoltura.

Così, di generazione in generazione, il sapere contadino si tramanda ancora secondo i canoni della trasmissione orale.
E ancora oggi la tammurriata, questa forma arcaica di canto sul tamburo, si trasmette di padre in figlio, ed è legata ai rituali collettivi come i raccolti nei campi, il passaggio delle stagioni, la vendemmia, le feste religiose.
Solo questi momenti di vita contadina possono determinare la funzione, l’occasione e la dimensione del rituale, necessarie per la materializzazione di questa forma espressiva.
I canti dei contadini, il loro lavoro, le loro paure, i loro amori appartengono a una storia mai scritta, mai ricordata, che trova un filo di vita nei racconti e nei ricordi dei vecchi.

Al giorno d’oggi la cultura contadina è ancora viva in Campania, anche se la spaventosa avanzata del cemento rischia di portare all’estinzione la figura del contadino, e nonostante il quasi completo disinteresse, se non addirittura l’ignoranza, da parte delle nuove generazioni nei confronti dell’eredità culturale del passato.


IL MITO E LA FEDE


Ho accennato alla matrice ellenica della tammurriata e al fatto che il canto sul tamburo dei greci, che vivevano nelle colonie dell’Italia meridionale attorno al V secolo a.C., è stato immediatamente assorbito dalle popolazioni contadine campane.
La tammurriata è diventata tuttavia una fortissima espressione di fede cristiana, meglio conosciuta in Campania come “devozione”, rivolta quasi esclusivamente alla Vergine, ma spesso anche ad alcuni santi, come ad esempio San Michele o Sant’Antonio Abate. Si potrebbe pensare che i contadini campani, una volta abbracciato il cristianesimo, adattarono le antiche usanze, con cui adoravano le divinità protettrici dei raccolti, ai simboli e alle icone della nuova religione.
L’aspetto veramente straordinario di questo “riadattamento paradigmatico” è che la sorgente mitologica del sapere contadino non si è mai prosciugata, ma, come un fiume carsico, ora emerge in superficie in modo evidente, ora scompare alla vista, segnalando la sua presenza solo con un sottile gorgoglìo sotterraneo.

Uno degli elementi-chiave per la comprensione della cultura contadina campana sta nel rapporto dialettico tra gli opposti, che dà origine ad una cultura “dualistica”.
In questa cultura “a spirale”, continua e dinamica, l’opposto vive spesso nella stessa entità, nello stesso “segno”; in essa sono stati bloccati, in un “equilibrio instabile”, gli elementi pagani e cristiani che l’hanno generata.

Tutto ciò si riflette nella tammurriata, che si esegue prevalentemente in occasione dei pellegrinaggi ai numerosi Santuari mariani presenti nell’entroterra campano. Questi Santuari sono dedicati quasi tutti a Madonne “sedute” (ad esempio la Madonna di Montevergine ad Avellino, o la Madonna dell’Arco a Giugliano in Campania).
Ad un’attenta analisi, le attuali Madonne campane hanno, proprio nel fatto che sono “sedute”, una radice pagana. Infatti, la loro rappresentazione “seduta” è, in qualche maniera, la trasposizione cristiana del culto pagano di Demetra, la madre terra, figlia di
Crono e di Rea, quindi sorella di Zeus; dea delle messi, in genere legata all’agricoltura, e che veniva appunto raffigurata seduta.
Attributi di Demetra erano la fiaccola, il covone di grano, il maiale, elementi esistenti anche nell’attuale rappresentazione di alcune Madonne.
Ebbene, al culto di Demetra si associava un ballo con l’uso di un tamburo molto simile all’attuale tammorra (il tamburo usato nella tammurriata), che veniva percosso con la mano nuda.
Le prime raffigurazioni in cui compare questo tamburo le abbiamo in ritrovamenti archeologici, bassorilievi, affreschi e pitture databili al V secolo a.C..

In epoca latina si adorava Cerere, dea anch’essa della vegetazione e delle messi, e in suo onore si celebravano le “Cerealia”, feste che si svolgevano nel mese d’aprile, care ai contadini.
Le danze e i canti orgiastici, che accompagnavano queste feste propiziatorie, rappresentano l’anima delle attuali manifestazioni di fede nelle feste popolari in onore della Vergine.


IL CULTO DELLE SETTE MADONNE



- Cumm' è che ddicen' 'o fatto r' 'e… Maronne che ssongo sei' sore?
- 'A Maronn' 'e Muntevergene… 'a Maronn' 'e Pumpei'… 'a Maronn' 'e Mugnano… 'e santa Filumena… 'a Maronn' 'o Càrmene… 'a Maronn' 'e Vagne… a che stammo?… 'A cchiù brutta se ne jette a Muntevergene… er' 'a Maronn' 'e Muntevergene.
- Pecché era nera…
- Eh… 'a Maronn' 'o chiano…
- E pecché signo' se ne jette a Muntevergene?
- E se ne jette pecché chell' er' 'a cchiù brutta, rice: - I' so' 'a cchiù brutt' 'e tutt' 'e ssòre meie, me n'aggi' 'a j' tanto luntano ca m'hanno 'a veni' a truva' tutt' 'o prùbbeco.
- Se jette a mettere ncopp'a nu pizz' 'e montagna… 'o gghianco.
- Era… 'a settima.
- Eh… 'a settima, 'a l’urdema sòra.
- 'A l'urdema sòra… ricette: - I' so' cchiù brutta 'e tutt' 'e ssòre meie, me n'aggi' 'a j' tanto luntano ca m'hann' 'a veni' a truva'.
- Pecché era nera…
- Invece chell'er' 'a cchiù bella!
- Ma pecché è nera?
- Era nera…
- Allora so' sett' 'e ssòre!
- Eh… sette sòre.
- So' sei' belle e una brutta.
- Sei' belle e una… un' 'a chiammano brutta, però chella brutta è cchiù bella!
- Chella cchiù brutta è cchiù bella!
- È 'a Maronn' 'e Muntevergene.
- È 'a Maronn' 'e Muntevergene!





- Com’è che dicono il racconto delle… Madonne che sono sei sorelle?
- La Madonna di Montevergine… la Madonna di Pompei… la Madonna di Mugnano… di santa Filomena… la Madonna del Carmine… la Madonna dei Bagni… a che stiamo? La più brutta se ne andò a Montevergine… era la Madonna di Montevergine.
- Perché era nera…
- Sì… la Madonna del piano…
- E perché se ne andò a Montevergine?
- E se ne andò perché era la più brutta… dice: - Io sono la più brutta di tutte le mie sorelle, devo andarmene tanto lontano che tutta la gente dovrà camminare per venirmi a trovare.
- Si andò a stabilire su una vetta di montagna…
- Su una vetta di montagna… al bianco.
- Era… la settima.
- Sì… la settima… l’ultima sorella.
- L’ultima sorella… disse: - Io sono la più brutta di tutte le mie sorelle, devo andarmene tanto lontano che dovranno venire a trovarmi.
- Perché era nera…
- Invece quella era la più bella!
- Quella era la più bella!
- Ma perché è nera?
- Era nera…
- Allora sono sette sorelle!
- Sì… sette sorelle.
- Sono sei belle e una brutta.
- Sei belle e una… una che la dicono brutta, però quella brutta è più bella!
- È la Madonna di Montevergine.
- È la Madonna di Montevergine!


Questo è un racconto in forma di dialogo di Maria Boccia D’Aquino, contadina di Boscoreale – Napoli, del mito delle sette Madonne della Campania.


In Campania c’è il mito delle sette Madonne, sette sorelle, sei belle e una brutta e nera. La brutta se ne andò sulla montagna di Montevergine, località vicino Avellino, e così ebbe inizio l’adorazione a quest’ultima sorella brutta, che invece è la più bella.

Una vasta iconografia permette di ricondurre le sette sorelle alle sette Sibille, le sacerdotesse dedite al culto d’Apollo, che avevano la facoltà di profetare e di interpretare gli oracoli del dio, e che poi vennero a far parte del culto cristiano.

L’interpretazione più plausibile del culto delle sette Madonne lo riconduce alla rappresentazione dei mesi dell’anno e delle stagioni, propria della cultura contadina.
Il numero sette (che è numero magico) non va pensato solamente come sette: dal momento che sei sono bianche e una nera, sei rappresentano la primavera e l’estate, la settima – nera, brutta – rappresenta l’autunno e l’inverno, essa è sempre collegata alla montagna, e in un solo segno racchiude questo lungo periodo, in cui la terra accoglie la seminagione e promette il ritorno delle sei sorelle belle.
Questo modellamento si ispira ad elementi di cultura pre-cristiana, poi accolti anche nella nuova religione.
Così la figura della Madonna si veste di un senso contadino molto più antico, e questo spiega anche perché il cristianesimo è poi entrato a far parte della cultura contadina: perché ha preso su di sé i segnali più antichi, li ha accolti e mantenuti al suo interno.

Nella cultura campana la “settima” è la Madonna di Montevergine, ed è l’unica ricorrente, le altre sei possono essere qualsiasi. Infatti i nomi variano da paese a paese, ma mantengono una costante nel riferimento alla nera, che ritorna sempre, appunto la Madonna di Montevergine.

Il culto del nero, della Madonna nera, affonda le radici in un modello pre-cristiano. Un precedente potrebbe essere la Diana degli efesini, che era una Diana nera.
Il parallelismo tra la Diana di Efeso e la Madonna nera è lampante, e conferma ancora una volta la continuità di certi elementi di culto fondamentali nel passaggio da una religione a un’altra; gli elementi del culto pagano degli avi, ancora oggi custoditi dai contadini campani devoti alla Madonna.
Dalla storia e dall’archeologia sappiamo che l’antica città greca di Efeso, in Asia Minore, era particolarmente celebrata nell’antichità per il magnifico tempio dedicato ad Artemide (Diana). La dea greca Artemide inizialmente era adorata come dea madre, una facoltà rappresentata nelle iconografie dalle sue numerose mammelle.
Presso i romani Artemide era identificata in Diana, una dea dei boschi ma anche dea della fertilità.
Negli Atti degli Apostoli si legge che San Paolo apostolo fu cacciato da Efeso a furor di popolo, poiché gli artigiani e gli artisti della città non volevano perdere gli affari legati al commercio di manufatti, che celebravano Artemide e il suo tempio, per i fedeli e i pellegrini in visita da tutte le parti del mondo.
La chiesa fondata da Paolo a Efeso, cadde poi sotto l’influenza di un uomo chiamato Giovanni, che potrebbe essere riconosciuto come il quarto evangelista. Se così fosse, Giovanni, quando andò ad Efeso, avrebbe portato con sé Maria, la madre di Gesù.
Infatti il Vangelo secondo Giovanni racconta che il Cristo sul punto di morire sulla croce affidò la madre al suo discepolo preferito, appunto Giovanni.
Di conseguenza, ad Efeso, accanto alla chiesa dell’apostolo, fu eretta la prima basilica in onore della dea madre dei cristiani.
La sua esistenza è attestata fin dal quarto secolo.
E allora la città ebbe di nuovo la sua magnifica dea e, salvo il nome, scarsi furono i mutamenti. Anche gli orefici ripresero il loro lavoro, consistente nel fabbricare modelli del tempio e immagini della dea per i nuovi pellegrini.

L’assunzione della Madonna a dea madre del popolo contadino convertito al cristianesimo è meravigliosamente esemplificata dall’immagine di Maria Santissima delle Grazie, risalente al primo ’400, che tutt’oggi si venera nella Chiesa di San Pietro Martire, appartenente ai Frati Domenicani a Napoli.
L’immagine mostra Maria nell’atto di aspergere latte dalle proprie mammelle (simbolo di maternità, protezione, amore), e appare evidente il collegamento con l’aspetto nutrice della Grande Madre dalle molte mammelle, l’Artemide greca, che prometteva abbondanza e fertilità.




EROTISMO E SPIRITUALITÀ


Ho descritto sopra l’elemento-chiave del rapporto dialettico tra gli opposti, che genera la struttura dualistica della cultura campana.

Ora introduco un nuovo, importantissimo, concetto-chiave della cultura contadina campana che è quello del “doppio”.
È proprio la lettura “polisemica” dei testi, delle danze, delle musiche, dei colori, dei gesti, che ci pone di fronte l’esistenza di doppi: il bello e il brutto, il bianco e il nero, il bene e il male, lo spirito e la carne, la femmina e il maschio, la Madonna e Diana, la Madonna e il sesso.
Gli elementi che formano i doppi non sono necessariamente degli opposti, ma hanno la caratteristica di vivere contemporaneamente. Essi fanno parte di una sola realtà, né si escludono mai per ragioni moralistiche, né uno dei due elementi viene rimosso o ignorato.
E così la “settima” sorella è nello stesso tempo la più brutta e la più bella, la Cenerentola e la principessa!

Se andiamo ancora più a fondo nell’interpretazione dei simboli della cultura contadina ci imbattiamo in “catene di doppi”, che vengono a formarsi con l’incrocio e lo scambio degli elementi di ciascuna coppia di concetti. Così, ad esempio, la “madre”, il “sesso” e la “morte” sono concetti che entrano uno nell’altro e si scambiano e sono la stessa cosa.

Il concetto di doppio è, secondo me, fondamentale per comprendere a fondo lo spirito con cui si vive la tammurriata, nel suo carattere sacrale e orgiastico allo stesso tempo. È un concetto che ci fa comprendere in pieno la necessità di “sincretismo” del popolo contadino con la sua terra e con chi la protegge, e la benedice.
Quindi, e qui bisogna prestare molta attenzione, quando in un canto dedicato alla Madonna troviamo espressioni erotiche, con espliciti o impliciti riferimenti al rapporto sessuale o agli organi sessuali, non dobbiamo pensare in alcun modo a un gusto per l’ambiguità. Infatti il mondo contadino vive senza separazioni i vari momenti della vita, e, nello stesso modo, esprime nei canti e nelle danze della tammurriata questo sincretismo tra fervore religioso e ardore sessuale, due atteggiamenti emotivi posti allo stesso livello nella gerarchia dei comportamenti sociali.
Perciò non ci sono ambiguità, quelle che impropriamente vengono dette “doppi sensi”, né c’è alcuna malizia dal vago sapore blasfemo.
Siamo di fronte a un’espressione popolare limpida e pura, dove prevale su tutti il sentimento dell’amore. Non un amore sezionato in base alle diverse vicissitudini della vita, ma un amore totalizzante, paritetico e globale, che è la vera forza per affrontare la durissima vita contadina.

L’intero apparato simbolico, che proprio in presenza di un’interpretazione polisemica assume spesso e volentieri connotati magico-ritualistici, è condensato in maniera estremamente raffinata nel “testo”, nel senso più ampio del termine, della tammurriata, in apparenza un’espressione così genuina e spontanea.

TAMMURRIATA PER LA MADONNA DEI BAGNI


Il modo più efficace per chiarire il concetto del doppio e il sistema simbolico ad esso correlato è leggere direttamente il testo di una tammurriata (Riporto degli estratti del lungo testo di una tammurriata cantata da due “cantatori”, così sono chiamati i cantanti delle tammurriate, durante la festa per la Madonna dei Bagni, il cui Santuario si trova a Scafati, nell’Agro Nocerino-Sarnese. Questa festa si tiene il giorno dell’Ascensione e la domenica successiva. In tali giorni confluiscono fedeli da tutta la zona pompeiana e salernitana. Costoro, dopo avere attinto l’acqua da una fontana ritenuta miracolosa, esternano la loro devozione con canti e balli nei pressi del Santuario):

- Caruta na stella ra cielo
e 'mmiez' 'o mare s'è spampanata
e 'a rinto c'è asciuta na piccerella
cu 'e ricce 'nfronte cu 'e 'nnell' 'e mmane

La prima strofa di questa tammurriata è, di solito, eseguita nello stile detto a “fronna”, ovvero a “fronn' 'e limone” (fronda di limone), che è una particolare forma di canto campano a distesa e senza accompagnamento strumentale. Le “fronne” costituiscono uno dei più antichi modelli di lamentazione funebre in Campania, come conferma anche la gestualità dei cantatori di fronne che portano sempre la mano alla guancia nel cantare.


- Oi' 'mmiez' 'o mar'è nnata na scarola
li turche se nce 'a jocano a primera
chi pe' la cimma e llèna
nn' 'o tira' ca se nne vène
tien' 'a spina sott' 'o père
e nce 'a tiene e bbì e bbà
zompa 'o muro e bbiene ccà
nu vaso 'mmocca t'aggi' 'a ra'

Gli ottonari che ho riportato in corsivo sono assemblati estemporaneamente dai cantatori a mo’ di filastrocca, e non fanno parte del testo originario della tammurriata. Questi versi ottonari, detti dai cantatori “barzellette”, sono generalmente a carattere erotico, e il loro canto, effettuato quasi come una declamazione ritmica, assume i connotati della formula magica.

- … pe' la cimma e chi pe' lu streppone
neh chi pe' la cimma e chi pe' lu streppone
viato chi s' 'a vence sta figliola
chesta figliola è figlia re nutaro


- … sta figliola è figlia re nutaro
nce 'a port' 'a vunnelluccia tutta sciure
e 'mpietto nce 'a porta e bbà
sera e Napole mò ccà

- e 'mpietto nce porta na stella Riana
stella Riana quanno cumpariste
l’aria 'ntruvulata comm' 'o schiaraste

- uh l’aria 'ntruvulata 'o schiaraste
a chillu pezzillo che te nce mettiste
na fonta r'acqua santa nce criaste

- ue' na fonta r'acqua santa nce criaste
chi s’hadda vève ll'acqua re sta fonte
hadda tène 'e zecchenielle
e hadda tène 'e zecchenielle

- e hadda tène 'e zecchenielle pronte cuntante
'e zecchenielle mie so' ssempe pronte
chest'acqua m'aggi' 'a vève e Mmilla
nu canario e nu cardillo
uno allucca e n'ato strilla
n'at' 'o fa 'o riavulillo

- eh chest'acqua m'aggi' 'a vève o mòro o campo…



- È caduta una stella dal cielo
e in mezzo al mare si è sfogliata
e dall’interno è apparsa una fanciulla
con i riccioli in fronte e con gli anelli alle mani

- In mezzo al mare è nata una scarola
i turchi se la giocano a primiera (gioco di carte napoletano)
chi per la cima e Elena

(Tra i cantatori di tammurriate esiste la consuetudine d’interpolare i versi ottonari con espressioni verbali stereotipe che creano molte possibilità di variazioni. Le parole introdotte nella “barzelletta”, in coda agli ottonari, hanno la funzione di modellare la rima, baciata o assonante, dell’ottonario seguente. Di queste brevi espressioni, essenzialmente foniche, le più usate sono: “e bbà”, “e ccòre” (e cuore), “e Anna”, “e nnella” (e Annella), “e llèna” (e Elena), “e arena”, ecc. Questi brevi stereotipi non presentano dal punto di vista letterale nessuna attinenza col senso logico del verso, o col senso di tutta la canzone stessa, sebbene non sia difficile individuare in essi richiami codificati dei vocalizzi tipici del linguaggio della seduzione).

non tirare che si spezza
hai una spina sotto il piede
e ce l’hai e bbì e bbà
salta il muro e vieni qua
un bacio in bocca ti devo dare

- … per la cima e chi per la radice
chi per la cima e chi per la radice
beato chi vince questa ragazza
questa ragazza è figlia di persona notabile

- … questa ragazza è figlia di persona notabile
e porta la gonna tutta di fiori
e nel petto porta e bbà
di sera e Napoli qui adesso

- e nel petto porta la stella Diana
stella Diana quando tu apparisti
l’aria annuvolata come la rischiarasti

- l’aria annuvolata la rischiarasti
a quel posto dove ti posasti
una fonte d’acqua santa facesti sorgere

- una fonte d’acqua santa facesti sorgere
chi vuole bere l’acqua di questa fonte
deve tenere i zecchini (soldi)
e deve tenere i zecchini

- e deve tenere i zecchini pronti contanti
i miei zecchini sono sempre pronti
quest’acqua mi voglio bere e Camilla
un canarino e un cardellino
uno grida e l’altro strilla
un altro fa il diavoletto

- quest’acqua mi devo bere sia che mi faccia vivere sia che mi faccia morire…


Questo canto è uno dei più diffusi e conosciuti nella tradizione popolare campana. L’accentuata emblematicità dei suoi versi ci porta a ricercare una possibile chiave di lettura nel tessuto simbolico-magico del mondo popolare napoletano.

Il primo segno che vi si legge è una “scarola che nasce dal mare”. Innanzitutto va detto che la “scarola” o lattuga, è una pianta alla quale la tradizione popolare attribuisce molti significati e straordinari poteri curativi e magici.
(In una favola popolare campana, addirittura una fanciulla si ingravida dopo aver mangiato una “scarola”. Evidentemente per tali motivi la “scarola” si trova nella tradizione popolare della Campania come tipica pietanza rituale del Capodanno, con evidenti significati augurali e fecondanti. Non a caso il popolo napoletano con il termine “scarola” indica scherzosamente il sesso femminile di una fanciulla.)
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Questa magica “scarola” nasce dal mare come antica divinità femminile, apportatrice di fertilità. A conferma di ciò, la prima strofa ci ritrae l’immagine suggestiva di una stella caduta in mezzo al mare, dal cui contatto nasce una bellissima fanciulla con i capelli “ricci” e gli “anelli” alle mani.
Ed è ancora all’immagine dei capelli “ricci” che il popolo associa la magica “scarola”.
Gli “anelli” poi, oltre che segno femminile, rappresentano un evidente segno nuziale e auguralmente fecondante.
I versi introducono poi un segno di contrasto, i “turchi”, che nella tradizione indica il colore “nero”, il maschio contrapposto alla femmina, il fallo sotterraneo, l’oscurità contrapposta alla luce o la notte contrapposta al giorno.
In altri termini i “turchi” rappresentano anche esseri che stanno al di là del mare, ed in questo sono associati alla morte, ad una morte o una violenza naturale che viene da un altro mondo (in ciò collegabili anche alle storiche incursioni sulle spiagge della Campania).
A Maiori, località della Costiera Amalfitana, sui cui alti monti c’è un Santuario in cui si venera la Madonna Avvocata, si è tramandato uno stile di tammurriata che va ricondotto alla storia delle invasioni turche. Infatti è l’unica zona della Campania dove la performance della tammurriata è eseguita da un gruppo, anche molto numeroso, di “tammorrari” (coloro che suonano la tammorra), piuttosto che da uno solo. Questa caratteristica mette l’accento sulla funzione di “segnale d’allarme” che assumeva il fragoroso battito delle tammorre, quando s’intravedevano all’orizzonte le navi dei turchi.

Eppure sempre dallo stesso mare (elemento originario di tutto), nasce, oltre che il pauroso e notturno segno dei turchi, anche la luminosa scarola-fanciulla, generata dalle mistiche nozze del cielo e del mare.
A questa divinità femminile si associano altri elementi quando si parla di una “stella Diana” che brilla sul suo petto.
Ecco allora l’evidente segno solare indicato nella stella come luce e fuoco, peraltro da collegare anche a un mondo celeste.
Tuttavia, se la stella porta con sé una chiara simbologia solare, il segno “Diana” si associa anche ad un antichissimo segno notturno e lunare.
Ad evidenziare ulteriormente questo significato “doppio” della simbologia espressa, contribuisce il verso successivo: «Chi per la cima e chi per la radice». Qui è introdotto il “doppio” costituito dagli elementi “alto” e “basso”, ossia la doppia componente nello stesso personaggio, divino in senso celeste e sotterraneo in senso di vita e di morte, di luce e di tenebre.
Ed è «beato chi la vince», come dice il verso successivo, nel senso che è felice chi conosce lei in tutti i suoi aspetti, nella vita e nella morte, in quanto tutto fa parte di un solo soprannaturale che poi s’identifica nella totalità della natura stessa.
In tal senso, perfino il segno dei “turchi”, apparentemente negativo, diventa segno naturalmente associato alla fanciulla e che, nell’inevitabile contrapposizione tra notte e giorno, morte e vita, si riconduce ad un naturale e semplice gioco: «i turchi se la giocano a primiera».

L’analisi del testo di una tammurriata, come abbiamo visto, è estremamente affascinante e coinvolgente perché con essa riusciamo a tracciare una mappa dell’articolato corredo simbolico della cultura contadina campana.
Tuttavia la sola analisi del testo, sebbene approfondita, non esaurisce tutto il significato o la funzione della tammurriata. Infatti per avere un’idea completa e soddisfacente di quest’arcaica espressione contadina non possiamo prescindere dal “contesto”.
Proprio in quanto fenomeno “multimediale”, proprio in seguito alla polisemia dei messaggi che lanciano gli artefici di questa espressione, è necessario considerare nel loro insieme sia gli elementi del testo, sia quelli gestuali delle mimiche e dei balli, sia l’ambiente in cui avviene tutto ciò.
Quindi non avremo mai un’idea precisa di cosa sia una tammurriata fin quando non ci rechiamo sul posto del pellegrinaggio, al tale Santuario, o nei pressi di tale grotta, luoghi in cui la tammurriata è suonata, cantata e ballata per ore intere, da tarda sera fino all’alba.

TRA SOGNO E REALTÀ: LA FESTA

Riporto alcuni estratti della testimonianza di Roberto De Simone, il maggior studioso della tradizione napoletana, sulla festa per la Madonna di Materdomini, una delle feste più belle della Campania. Una festa notturna che si svolge nella zona di Nocera – Salerno tra il 14 e il 15 agosto. Durante questa festa si venera un’antichissima immagine della Madonna e si balla davanti al Santuario. Di Materdomini si parla fin dal Medioevo.



“… più volte mi avevano parlato di questa bellissima festa notturna, descrivendola con i termini più entusiastici di questo mondo. E fu così che la notte del 14 agosto, decisi di mettermi in viaggio e raggiungere entro le ventitré ore il luogo della festa nei pressi delle campagne presso Nocera dei Pagani.
A chi vi si reca per la prima volta, il viaggio può sembrare molto lungo, e invece vi rimane breve nel ricordo, quasi fosse stato un sogno, tra gruppi di giovanelli che vi si recano essenzialmente per ballare, donne anziane con figliole più giovani, e uomini a due, a quattro, a comitive, che per le campagne, senza che gli si domandi nulla, vi indicano nel buio il percorso da fare…

… Improvvisamente si arriva come ad un’antica porta di città, e allora, come per incanto mi ritrovai davanti ad una strada luminosissima, in salita, dove una folla di persone camminava fra due lunghe file laterali di tavole imbandite, di frutta esposta, di limoni, di piante e di mille e mille odori…

… In questo cuore della festa, volsi uno sguardo alle tavole imbandite dove, in onore di Nostra Signora di Materdomini, si mangiano a sazietà (benché tutte di magro), un’infinità di pietanze che indicano una veglia corale di trapasso, una vigilia di miracolo, un’attesa millenaria. Eppure, in tutto ciò niente vino, ché non è festa da vino, né può bersi in una notte come questa.
Spinto in questo corpo di folla, arrivai finalmente al luogo santo, dove ecco una grande facciata illuminata fantasticamente, due grandi porte di un tempio spalancato, e un’area antistante dove sembra doversi radunare tutta la gente del mondo.
All’interno, verso Oriente, scorsi l’immagine venerata, quella che nella festa è il centro dell’attenzione e della devozione di tutti. Tutti infatti vi passano dinanzi in questa notte e qui depongono le loro devozioni, la loro natura, il loro trasporto.
E sono genuflessioni e percorsi in ginocchio fino a Lei, situata sotto un ricco baldacchino di marmi preziosi, mentre nell’aria risuonano i canti che la appellano “La Signora”…

… Intorno al prezioso tronetto della “Signora” gira dunque la folla dei tanti pellegrini i quali, dopo aver deposto l’omaggio rituale, con la mano sinistra sfregano la pietra che è alle sue spalle e poi si toccano il viso, il collo e la testa, quasi a trasmettere al proprio corpo l’essenza magica e divina della pietra stessa…


… Riconobbi allora Antonio, il grande suonatore di tamburo, il quale battendo il ritmo già da una mezz’ora, cominciava ad atteggiare quella sua strana espressione estatica e a volgere gli occhi verso l’alto, verso un qualcosa che solo lui sembrava scorgere.
Intorno a lui si scaldò l’ambiente, si formò un gran cerchio di persone e tutto sembrò muoversi sullo stesso binario ritmico imposto da Antonio o imposto ad Antonio da tutti i presenti.
A un certo momento, quando il ritmo crebbe d’intensità e pareva far ondeggiare anche le pietre, ecco un giovane sui diciotto anni, il quale sollevando la maglietta fino al petto e scoprendosi nudo fino alla cintura dei pantaloni, incominciò a dimenare i fianchi alzando le braccia e socchiudendo gli occhi e la bocca tra l’entusiasmo degli occhi dei presenti sempre più lucidi, eppure senza che nessuno avesse bevuto vino.
Al movimento di questo giovane, un altro ragazzo più aggressivo, capelli rossi e grida di entusiasmo folle, si gettò nella danza, circuendo il primo danzatore e mimando con la lingua mille inviti alle sue membra impazzite dal ritmo.
All’unisono, il battito delle mani di tutti seguiva il tamburo di Antonio che, con lo sguardo sempre più perso nel vuoto, assorbiva il peso ritmico di tutti i presenti. Lo sforzo della sua immane fatica a suonare per ore intere senza interruzione sembrava quasi nullo se non fosse stato per quei rivoli di sudore che gli colavano dalla fronte e che egli faceva scivolare lungo il viso scuotendo la testa di tanto in tanto. Solo allora, quasi come per un rito, uno dei presenti con un asciugamani bianchissimo gli tergeva il volto e la fronte senza che egli interrompesse nemmeno per una battuta il ritmo esaltante della danza.
A un tratto, chissà come mi accorsi che si cantava, e allora scorsi i due cantatori che lanciavano i loro canti religiosi di un erotismo magico e misterioso, presente ed incorporeo come la danza di quei due giovani che sembrava dipinta nell’anima di tutti i presenti, o sembrava scolpita negli occhi della stessa immagine di Nostra Signora…





… nella notte di questa festa le persone non appartengono a se stesse proprio perché appartengono al corpo unico di tutto il mondo…

… Man mano si aggiunsero altri danzatori. Uno in particolare chiamato Angelo: basso, tarchiato, con gli occhi obliqui come quelli di una capra e le mani nodose come il legno delle stesse castagnette che ostinatamente egli faceva scoppiettare.
Con gesti solenni eppure violenti, Angelo mimava mille atteggiamenti con un altro uomo dal viso impassibile, gli occhi bassi e le labbra atteggiate ad un fisso ed ambiguo sorriso. Ed erano gesti d’invito, di incontro, di fuga, di compiacimento ora succubi, ora aggressivi.
Ed ecco Alfonso accesissimo in viso, con le sue espressioni singhiozzate: «Oi' Maro' … ne' Maro' ».
Ed ancora Virginia con i suoi canti gutturali e tutti a farle eco e la santa immagine esposta sempre più viva, luminosa e presente.
A mezzanotte, culmine ed inizio della festa, le danze e i canti presero il loro più vero ed antico aspetto orgiastico. I suoni e i ritmi giunti al loro “zenit” rimasero tali fino al sorgere dell’alba, tra le espressioni erotiche, le danze sfrenate, i cembali, i tamburi, le nacchere, e infine le grida di persone che imitavano il raglio dell’asino, il nitrito del cavallo, lo squittire degli uccelli e il verso delle oche e delle galline. Tutti gli animali che qui sembrano trasferiti nelle persone intervenute alla festa, o ancora tutte le persone quasi trasformate negli animali già nominati.”





Nelle parole di De Simone ritroviamo lo spirito della cultura campana sintetizzato nella maniera più completa e appassionata.
Prendiamo coscienza di cosa sia veramente una festa contadina: un evento che si realizza in uno stato alterato della percezione spazio-temporale, in un “tempo straordinario” separato dal “tempo ordinario” della quotidianità, e ad esso complementare.






Possiamo osservare inoltre i segni delle usanze imposte dalla Chiesa cattolica: il magro, l’assenza di vino; e in contrapposizione i ben più numerosi segni derivati dai culti pagani:

- l’immagine della Vergine esposta “verso Oriente”, il luogo dove sorge il sole, simbolo di nuova vita e di fertilità, e richiamo alle più antiche civiltà, come quella egiziana;
- l’atteggiamento dei fedeli, in cerca di grazia, che percorrono in ginocchio l’intero Santuario, o che sfregano la pietra su cui è disposta la sacra immagine “e poi si toccano il viso, il collo e la testa, quasi a trasmettere al proprio corpo l’essenza magica e divina della pietra stessa”;
- il loro appellarsi alla Madonna come “La Signora”, che ha un richiamo evidentissimo alla “Grande Signora d’Oriente”, l’antica e pagana Diana;
- la danza estatica del giovane diciottenne, che si scopre il petto e che si dimena sui fianchi alzando le braccia e socchiudendo gli occhi, non può non farci venire in mente la danza pagana di re David davanti alle Tavole della Legge, in onore del suo dio, il Dio dei cristiani;
- le grida e gli atteggiamenti animaleschi dei “posseduti”, che ricordano l’ebbrezza dei baccanali e l’abbandono erotico delle orge dionisiache.




CONCLUSIONI


Tutto è rivolto alla “Figliola” come vergine, madre, sorella, sposa, come terra, albero, orto, giardino, rosa, fontana, pozzo, come montagna, castello, palazzo, casa, chiesa, e come Sole e Luna, come barca, fiume, mare in cui perdersi, annegare; ma anche viaggiare e poi tornare, come grotta, caverna dalla quale si è nati ed alla quale si vorrebbe sempre ritornare.

Solo così si capisce la funzione della tammurriata che nella sua concitazione esprime il costante desiderio, da parte di chi la esegue, ovvero da chi la vive, di salire fino alla “Figliola” per stare finalmente tra le sue braccia.

Ma la “Figliola” è sempre alta montagna, torre, palazzo o castello impenetrabile, o penetrabile solo nel momento della morte, perché è nello stesso grembo della terra che si ritorna.

Ho definito sopra due elementi-chiave della cultura contadina campana: il rapporto dialettico tra gli opposti, e la coesistenza di catene di doppi significati.

Per concludere voglio introdurre un terzo elemento-chiave che inquadra perfettamente l’universo psicologico dei contadini campani: “tutto si può rovesciare”. In questo motto di saggezza popolare possiamo individuare la componente teleologica del pensiero contadino: «I miei grossi sacrifici saranno compensati con un premio finale!». E così la nera sorella-montagna-vergine-brutta, diventa la più bella delle sue sei sorelle, proprio perché è nello stesso tempo vergine e madre, in grado di partorire anche le sue stesse sorelle.

Ed è sempre a lei che si tende, lei che sta in alto su una montagna o giù in una valle, o nel mare o sotto terra, comunque sempre al di là di chi vorrebbe raggiungerla pur avendo paura di raggiungerla. E per raggiungerla al di là si passano i ponti, si traversano i fiumi, si varca il mare in un eterno viaggio di andata e ritorno, come il moto dell’onda sulla spiaggia, come il coito di un universo di angoscia e di amore.
d.f. son sette sorelle, 2011


 

le sette sorelle nuova teoria sulle tradizioni popolari campane

18 agosto 2011
LE SETTE SORELLE domenico fauceglia
Scoprire nelle forme espressive popolari una sorta di linguaggio primordiale, carico di significati e valori che sono andati perduti nella massificata comunicazione della nostra contemporaneità, è uno dei massimi obiettivi di ogni studioso dei comportamenti umani.
La più grande risorsa di questo sapere antico è, per nostra fortuna, ancora custodita nella tradizione dei contadini, ovvero delle comunità più semplici e isolate. Queste genti si servono di un canale di comunicazione privilegiato, che è rimasto intatto per millenni: quello della musica, del canto e del ballo.

In questa introduzione affronterò lo studio della cultura contadina della Campania, nel sud Italia, appunto come proiezione della sua forma espressiva più genuina ed antica: la “tammurriata”. La tammurriata prende il nome dal suo strumento principe, la “tammorra” o “tammurro” (un tamburo sostenuto con una mano e suonato con l’altra), e la sua interpretazione prevede tre ruoli: il suonatore di tammorra (detto “tammorraro”), il cantante ed almeno una coppia di ballerini.

Nel paragrafo Cenni storici traccerò un quadro storico della tammurriata, sfiorando brevemente le epoche più significative per il suo sviluppo, dalle sue origini (presunte) fino ad oggi.
Ne Il mito e la fede affronterò l’analisi della matrice mitologica della tammurriata, e quindi della cultura contadina, ed evidenzierò gli elementi arcaici conservati nel rito anche dopo l’adozione della religione cristiana.
A questo punto tratterò Il culto delle sette Madonne campane, e mostrerò il percorso che ha portato i contadini a sostituire la venerazione per Artemide, con quella per Diana e quindi per la Madonna, identificando le tre divinità in un’unica dea Madre della fertilità e dell’abbondanza.
In Erotismo e spiritualità introdurrò il denso apparato di simboli di natura magico-rituale che appartengono alla quotidianità del mondo contadino, e poi estrapolerò questi simboli dal testo della Tammurriata per la Madonna dei Bagni.
Infine, nel paragrafo Tra sogno e realtà: la festa, cercherò di dare un’idea dell’importanza del “contesto” di una tammurriata, riportando una coinvolgente testimonianza sulla festa per la Madonna di Materdomini.


CENNI STORICI


La voce del popolo contadino che ha abitato il territorio campano, dalle pendici del Vesuvio ai monti che affacciano sulla Costiera Amalfitana, conserva ancora oggi una forte eco nella tammurriata. Tramandata nei tempi antichi col nome di “canzuna 'e copp' 'o tammurro” (ossia canto sul tamburo), la tammurriata non è semplicemente una forma d’espressione musicale popolare. Essa è il nucleo vitale del mondo contadino, e porta con sé precetti, insegnamenti, dogmi e tabù che hanno a che fare con le sfere della religione, della sessualità, delle credenze, della vita di ogni giorno.
Oltre che denso apparato di simboli e doppi sensi, la tammurriata è anche l’occasione nella quale si cerca di dare sfogo alle angosce, alle frustrazioni e alle paure quotidiane. Essa è dunque un modo efficace per esorcizzare le cause del disagio sociale e spirituale, attraverso una sorta di azione catartica che veicola una vera e propria maieutica del corpo sociale collettivo.

Quando è nata la tammurriata? Quali “ingredienti” hanno permesso la sua nascita?

Le origini della tammurriata vanno ricondotte almeno al V secolo a.C., periodo in cui gli antichi greci giunsero in Italia e crearono delle colonie in tutto il Meridione.
Il canto degli antichi greci, eseguito col tamburo, mise immediatamente le radici nell’entroterra campano, anch’esso strettamente legato al mondo agricolo e al culto delle divinità che proteggevano le messi e il raccolto.
La tammurriata va allora considerata il frutto dell’incontro di diverse culture contadine del Mediterraneo, e Napoli il luogo principale d’attrazione di queste molteplici correnti culturali.
L’estrema vitalità della cultura contadina a Napoli si registra ancora nel ’500 favorita dal continuo afflusso nella città di masse di contadini del sud. Quest’esodo era dovuto alle tragiche condizioni di vita imposte dal regime feudale, che provocarono l’abbandono delle terre e il riversarsi nella capitale di migliaia di contadini alla ricerca di una realtà meno disumana.
Il massiccio inurbamento fu anche favorito, peraltro, dalla politica del governo spagnolo, che conferiva esenzioni dalle tasse ai cittadini napoletani per creare una capitale forte e popolosa, tale da opporsi al potere dell’aristocrazia feudale e del clero (disegno che poi sfuggì pericolosamente allo stesso governo, per cui si fu costretti a proibire l’edificazione di nuove abitazioni nella città, dando luogo al formarsi di zone di emarginati nei quartieri sistemati alla periferia urbana, tuttora connotata da malessere sociale).
La città di Napoli, prima di essere decimata dalla “peste nera” del 1656, era la maggiore capitale europea, e quindi era un crogiolo di culture, da cui la tradizione contadina, sempre presente nell’area urbana, ha assorbito di continuo nuova linfa.
Nei tempi moderni, con l’industrializzazione della città partenopea, la cultura e le tradizioni contadine sono rimaste legate solo ai luoghi di culto nella capitale, oppure alle province campane la cui economia era diffusamente basata sull’agricoltura.

Così, di generazione in generazione, il sapere contadino si tramanda ancora secondo i canoni della trasmissione orale.
E ancora oggi la tammurriata, questa forma arcaica di canto sul tamburo, si trasmette di padre in figlio, ed è legata ai rituali collettivi come i raccolti nei campi, il passaggio delle stagioni, la vendemmia, le feste religiose.
Solo questi momenti di vita contadina possono determinare la funzione, l’occasione e la dimensione del rituale, necessarie per la materializzazione di questa forma espressiva.
I canti dei contadini, il loro lavoro, le loro paure, i loro amori appartengono a una storia mai scritta, mai ricordata, che trova un filo di vita nei racconti e nei ricordi dei vecchi.

Al giorno d’oggi la cultura contadina è ancora viva in Campania, anche se la spaventosa avanzata del cemento rischia di portare all’estinzione la figura del contadino, e nonostante il quasi completo disinteresse, se non addirittura l’ignoranza, da parte delle nuove generazioni nei confronti dell’eredità culturale del passato.


IL MITO E LA FEDE


Ho accennato alla matrice ellenica della tammurriata e al fatto che il canto sul tamburo dei greci, che vivevano nelle colonie dell’Italia meridionale attorno al V secolo a.C., è stato immediatamente assorbito dalle popolazioni contadine campane.
La tammurriata è diventata tuttavia una fortissima espressione di fede cristiana, meglio conosciuta in Campania come “devozione”, rivolta quasi esclusivamente alla Vergine, ma spesso anche ad alcuni santi, come ad esempio San Michele o Sant’Antonio Abate. Si potrebbe pensare che i contadini campani, una volta abbracciato il cristianesimo, adattarono le antiche usanze, con cui adoravano le divinità protettrici dei raccolti, ai simboli e alle icone della nuova religione.
L’aspetto veramente straordinario di questo “riadattamento paradigmatico” è che la sorgente mitologica del sapere contadino non si è mai prosciugata, ma, come un fiume carsico, ora emerge in superficie in modo evidente, ora scompare alla vista, segnalando la sua presenza solo con un sottile gorgoglìo sotterraneo.

Uno degli elementi-chiave per la comprensione della cultura contadina campana sta nel rapporto dialettico tra gli opposti, che dà origine ad una cultura “dualistica”.
In questa cultura “a spirale”, continua e dinamica, l’opposto vive spesso nella stessa entità, nello stesso “segno”; in essa sono stati bloccati, in un “equilibrio instabile”, gli elementi pagani e cristiani che l’hanno generata.

Tutto ciò si riflette nella tammurriata, che si esegue prevalentemente in occasione dei pellegrinaggi ai numerosi Santuari mariani presenti nell’entroterra campano. Questi Santuari sono dedicati quasi tutti a Madonne “sedute” (ad esempio la Madonna di Montevergine ad Avellino, o la Madonna dell’Arco a Giugliano in Campania).
Ad un’attenta analisi, le attuali Madonne campane hanno, proprio nel fatto che sono “sedute”, una radice pagana. Infatti, la loro rappresentazione “seduta” è, in qualche maniera, la trasposizione cristiana del culto pagano di Demetra, la madre terra, figlia di
Crono e di Rea, quindi sorella di Zeus; dea delle messi, in genere legata all’agricoltura, e che veniva appunto raffigurata seduta.
Attributi di Demetra erano la fiaccola, il covone di grano, il maiale, elementi esistenti anche nell’attuale rappresentazione di alcune Madonne.
Ebbene, al culto di Demetra si associava un ballo con l’uso di un tamburo molto simile all’attuale tammorra (il tamburo usato nella tammurriata), che veniva percosso con la mano nuda.
Le prime raffigurazioni in cui compare questo tamburo le abbiamo in ritrovamenti archeologici, bassorilievi, affreschi e pitture databili al V secolo a.C..

In epoca latina si adorava Cerere, dea anch’essa della vegetazione e delle messi, e in suo onore si celebravano le “Cerealia”, feste che si svolgevano nel mese d’aprile, care ai contadini.
Le danze e i canti orgiastici, che accompagnavano queste feste propiziatorie, rappresentano l’anima delle attuali manifestazioni di fede nelle feste popolari in onore della Vergine.


IL CULTO DELLE SETTE MADONNE



- Cumm' è che ddicen' 'o fatto r' 'e… Maronne che ssongo sei' sore?
- 'A Maronn' 'e Muntevergene… 'a Maronn' 'e Pumpei'… 'a Maronn' 'e Mugnano… 'e santa Filumena… 'a Maronn' 'o Càrmene… 'a Maronn' 'e Vagne… a che stammo?… 'A cchiù brutta se ne jette a Muntevergene… er' 'a Maronn' 'e Muntevergene.
- Pecché era nera…
- Eh… 'a Maronn' 'o chiano…
- E pecché signo' se ne jette a Muntevergene?
- E se ne jette pecché chell' er' 'a cchiù brutta, rice: - I' so' 'a cchiù brutt' 'e tutt' 'e ssòre meie, me n'aggi' 'a j' tanto luntano ca m'hanno 'a veni' a truva' tutt' 'o prùbbeco.
- Se jette a mettere ncopp'a nu pizz' 'e montagna… 'o gghianco.
- Era… 'a settima.
- Eh… 'a settima, 'a l’urdema sòra.
- 'A l'urdema sòra… ricette: - I' so' cchiù brutta 'e tutt' 'e ssòre meie, me n'aggi' 'a j' tanto luntano ca m'hann' 'a veni' a truva'.
- Pecché era nera…
- Invece chell'er' 'a cchiù bella!
- Ma pecché è nera?
- Era nera…
- Allora so' sett' 'e ssòre!
- Eh… sette sòre.
- So' sei' belle e una brutta.
- Sei' belle e una… un' 'a chiammano brutta, però chella brutta è cchiù bella!
- Chella cchiù brutta è cchiù bella!
- È 'a Maronn' 'e Muntevergene.
- È 'a Maronn' 'e Muntevergene!





- Com’è che dicono il racconto delle… Madonne che sono sei sorelle?
- La Madonna di Montevergine… la Madonna di Pompei… la Madonna di Mugnano… di santa Filomena… la Madonna del Carmine… la Madonna dei Bagni… a che stiamo? La più brutta se ne andò a Montevergine… era la Madonna di Montevergine.
- Perché era nera…
- Sì… la Madonna del piano…
- E perché se ne andò a Montevergine?
- E se ne andò perché era la più brutta… dice: - Io sono la più brutta di tutte le mie sorelle, devo andarmene tanto lontano che tutta la gente dovrà camminare per venirmi a trovare.
- Si andò a stabilire su una vetta di montagna…
- Su una vetta di montagna… al bianco.
- Era… la settima.
- Sì… la settima… l’ultima sorella.
- L’ultima sorella… disse: - Io sono la più brutta di tutte le mie sorelle, devo andarmene tanto lontano che dovranno venire a trovarmi.
- Perché era nera…
- Invece quella era la più bella!
- Quella era la più bella!
- Ma perché è nera?
- Era nera…
- Allora sono sette sorelle!
- Sì… sette sorelle.
- Sono sei belle e una brutta.
- Sei belle e una… una che la dicono brutta, però quella brutta è più bella!
- È la Madonna di Montevergine.
- È la Madonna di Montevergine!


Questo è un racconto in forma di dialogo di Maria Boccia D’Aquino, contadina di Boscoreale – Napoli, del mito delle sette Madonne della Campania.


In Campania c’è il mito delle sette Madonne, sette sorelle, sei belle e una brutta e nera. La brutta se ne andò sulla montagna di Montevergine, località vicino Avellino, e così ebbe inizio l’adorazione a quest’ultima sorella brutta, che invece è la più bella.

Una vasta iconografia permette di ricondurre le sette sorelle alle sette Sibille, le sacerdotesse dedite al culto d’Apollo, che avevano la facoltà di profetare e di interpretare gli oracoli del dio, e che poi vennero a far parte del culto cristiano.

L’interpretazione più plausibile del culto delle sette Madonne lo riconduce alla rappresentazione dei mesi dell’anno e delle stagioni, propria della cultura contadina.
Il numero sette (che è numero magico) non va pensato solamente come sette: dal momento che sei sono bianche e una nera, sei rappresentano la primavera e l’estate, la settima – nera, brutta – rappresenta l’autunno e l’inverno, essa è sempre collegata alla montagna, e in un solo segno racchiude questo lungo periodo, in cui la terra accoglie la seminagione e promette il ritorno delle sei sorelle belle.
Questo modellamento si ispira ad elementi di cultura pre-cristiana, poi accolti anche nella nuova religione.
Così la figura della Madonna si veste di un senso contadino molto più antico, e questo spiega anche perché il cristianesimo è poi entrato a far parte della cultura contadina: perché ha preso su di sé i segnali più antichi, li ha accolti e mantenuti al suo interno.

Nella cultura campana la “settima” è la Madonna di Montevergine, ed è l’unica ricorrente, le altre sei possono essere qualsiasi. Infatti i nomi variano da paese a paese, ma mantengono una costante nel riferimento alla nera, che ritorna sempre, appunto la Madonna di Montevergine.

Il culto del nero, della Madonna nera, affonda le radici in un modello pre-cristiano. Un precedente potrebbe essere la Diana degli efesini, che era una Diana nera.
Il parallelismo tra la Diana di Efeso e la Madonna nera è lampante, e conferma ancora una volta la continuità di certi elementi di culto fondamentali nel passaggio da una religione a un’altra; gli elementi del culto pagano degli avi, ancora oggi custoditi dai contadini campani devoti alla Madonna.
Dalla storia e dall’archeologia sappiamo che l’antica città greca di Efeso, in Asia Minore, era particolarmente celebrata nell’antichità per il magnifico tempio dedicato ad Artemide (Diana). La dea greca Artemide inizialmente era adorata come dea madre, una facoltà rappresentata nelle iconografie dalle sue numerose mammelle.
Presso i romani Artemide era identificata in Diana, una dea dei boschi ma anche dea della fertilità.
Negli Atti degli Apostoli si legge che San Paolo apostolo fu cacciato da Efeso a furor di popolo, poiché gli artigiani e gli artisti della città non volevano perdere gli affari legati al commercio di manufatti, che celebravano Artemide e il suo tempio, per i fedeli e i pellegrini in visita da tutte le parti del mondo.
La chiesa fondata da Paolo a Efeso, cadde poi sotto l’influenza di un uomo chiamato Giovanni, che potrebbe essere riconosciuto come il quarto evangelista. Se così fosse, Giovanni, quando andò ad Efeso, avrebbe portato con sé Maria, la madre di Gesù.
Infatti il Vangelo secondo Giovanni racconta che il Cristo sul punto di morire sulla croce affidò la madre al suo discepolo preferito, appunto Giovanni.
Di conseguenza, ad Efeso, accanto alla chiesa dell’apostolo, fu eretta la prima basilica in onore della dea madre dei cristiani.
La sua esistenza è attestata fin dal quarto secolo.
E allora la città ebbe di nuovo la sua magnifica dea e, salvo il nome, scarsi furono i mutamenti. Anche gli orefici ripresero il loro lavoro, consistente nel fabbricare modelli del tempio e immagini della dea per i nuovi pellegrini.

L’assunzione della Madonna a dea madre del popolo contadino convertito al cristianesimo è meravigliosamente esemplificata dall’immagine di Maria Santissima delle Grazie, risalente al primo ’400, che tutt’oggi si venera nella Chiesa di San Pietro Martire, appartenente ai Frati Domenicani a Napoli.
L’immagine mostra Maria nell’atto di aspergere latte dalle proprie mammelle (simbolo di maternità, protezione, amore), e appare evidente il collegamento con l’aspetto nutrice della Grande Madre dalle molte mammelle, l’Artemide greca, che prometteva abbondanza e fertilità.




EROTISMO E SPIRITUALITÀ


Ho descritto sopra l’elemento-chiave del rapporto dialettico tra gli opposti, che genera la struttura dualistica della cultura campana.

Ora introduco un nuovo, importantissimo, concetto-chiave della cultura contadina campana che è quello del “doppio”.
È proprio la lettura “polisemica” dei testi, delle danze, delle musiche, dei colori, dei gesti, che ci pone di fronte l’esistenza di doppi: il bello e il brutto, il bianco e il nero, il bene e il male, lo spirito e la carne, la femmina e il maschio, la Madonna e Diana, la Madonna e il sesso.
Gli elementi che formano i doppi non sono necessariamente degli opposti, ma hanno la caratteristica di vivere contemporaneamente. Essi fanno parte di una sola realtà, né si escludono mai per ragioni moralistiche, né uno dei due elementi viene rimosso o ignorato.
E così la “settima” sorella è nello stesso tempo la più brutta e la più bella, la Cenerentola e la principessa!

Se andiamo ancora più a fondo nell’interpretazione dei simboli della cultura contadina ci imbattiamo in “catene di doppi”, che vengono a formarsi con l’incrocio e lo scambio degli elementi di ciascuna coppia di concetti. Così, ad esempio, la “madre”, il “sesso” e la “morte” sono concetti che entrano uno nell’altro e si scambiano e sono la stessa cosa.

Il concetto di doppio è, secondo me, fondamentale per comprendere a fondo lo spirito con cui si vive la tammurriata, nel suo carattere sacrale e orgiastico allo stesso tempo. È un concetto che ci fa comprendere in pieno la necessità di “sincretismo” del popolo contadino con la sua terra e con chi la protegge, e la benedice.
Quindi, e qui bisogna prestare molta attenzione, quando in un canto dedicato alla Madonna troviamo espressioni erotiche, con espliciti o impliciti riferimenti al rapporto sessuale o agli organi sessuali, non dobbiamo pensare in alcun modo a un gusto per l’ambiguità. Infatti il mondo contadino vive senza separazioni i vari momenti della vita, e, nello stesso modo, esprime nei canti e nelle danze della tammurriata questo sincretismo tra fervore religioso e ardore sessuale, due atteggiamenti emotivi posti allo stesso livello nella gerarchia dei comportamenti sociali.
Perciò non ci sono ambiguità, quelle che impropriamente vengono dette “doppi sensi”, né c’è alcuna malizia dal vago sapore blasfemo.
Siamo di fronte a un’espressione popolare limpida e pura, dove prevale su tutti il sentimento dell’amore. Non un amore sezionato in base alle diverse vicissitudini della vita, ma un amore totalizzante, paritetico e globale, che è la vera forza per affrontare la durissima vita contadina.

L’intero apparato simbolico, che proprio in presenza di un’interpretazione polisemica assume spesso e volentieri connotati magico-ritualistici, è condensato in maniera estremamente raffinata nel “testo”, nel senso più ampio del termine, della tammurriata, in apparenza un’espressione così genuina e spontanea.

TAMMURRIATA PER LA MADONNA DEI BAGNI


Il modo più efficace per chiarire il concetto del doppio e il sistema simbolico ad esso correlato è leggere direttamente il testo di una tammurriata (Riporto degli estratti del lungo testo di una tammurriata cantata da due “cantatori”, così sono chiamati i cantanti delle tammurriate, durante la festa per la Madonna dei Bagni, il cui Santuario si trova a Scafati, nell’Agro Nocerino-Sarnese. Questa festa si tiene il giorno dell’Ascensione e la domenica successiva. In tali giorni confluiscono fedeli da tutta la zona pompeiana e salernitana. Costoro, dopo avere attinto l’acqua da una fontana ritenuta miracolosa, esternano la loro devozione con canti e balli nei pressi del Santuario):

- Caruta na stella ra cielo
e 'mmiez' 'o mare s'è spampanata
e 'a rinto c'è asciuta na piccerella
cu 'e ricce 'nfronte cu 'e 'nnell' 'e mmane

La prima strofa di questa tammurriata è, di solito, eseguita nello stile detto a “fronna”, ovvero a “fronn' 'e limone” (fronda di limone), che è una particolare forma di canto campano a distesa e senza accompagnamento strumentale. Le “fronne” costituiscono uno dei più antichi modelli di lamentazione funebre in Campania, come conferma anche la gestualità dei cantatori di fronne che portano sempre la mano alla guancia nel cantare.


- Oi' 'mmiez' 'o mar'è nnata na scarola
li turche se nce 'a jocano a primera
chi pe' la cimma e llèna
nn' 'o tira' ca se nne vène
tien' 'a spina sott' 'o père
e nce 'a tiene e bbì e bbà
zompa 'o muro e bbiene ccà
nu vaso 'mmocca t'aggi' 'a ra'

Gli ottonari che ho riportato in corsivo sono assemblati estemporaneamente dai cantatori a mo’ di filastrocca, e non fanno parte del testo originario della tammurriata. Questi versi ottonari, detti dai cantatori “barzellette”, sono generalmente a carattere erotico, e il loro canto, effettuato quasi come una declamazione ritmica, assume i connotati della formula magica.

- … pe' la cimma e chi pe' lu streppone
neh chi pe' la cimma e chi pe' lu streppone
viato chi s' 'a vence sta figliola
chesta figliola è figlia re nutaro


- … sta figliola è figlia re nutaro
nce 'a port' 'a vunnelluccia tutta sciure
e 'mpietto nce 'a porta e bbà
sera e Napole mò ccà

- e 'mpietto nce porta na stella Riana
stella Riana quanno cumpariste
l’aria 'ntruvulata comm' 'o schiaraste

- uh l’aria 'ntruvulata 'o schiaraste
a chillu pezzillo che te nce mettiste
na fonta r'acqua santa nce criaste

- ue' na fonta r'acqua santa nce criaste
chi s’hadda vève ll'acqua re sta fonte
hadda tène 'e zecchenielle
e hadda tène 'e zecchenielle

- e hadda tène 'e zecchenielle pronte cuntante
'e zecchenielle mie so' ssempe pronte
chest'acqua m'aggi' 'a vève e Mmilla
nu canario e nu cardillo
uno allucca e n'ato strilla
n'at' 'o fa 'o riavulillo

- eh chest'acqua m'aggi' 'a vève o mòro o campo…



- È caduta una stella dal cielo
e in mezzo al mare si è sfogliata
e dall’interno è apparsa una fanciulla
con i riccioli in fronte e con gli anelli alle mani

- In mezzo al mare è nata una scarola
i turchi se la giocano a primiera (gioco di carte napoletano)
chi per la cima e Elena

(Tra i cantatori di tammurriate esiste la consuetudine d’interpolare i versi ottonari con espressioni verbali stereotipe che creano molte possibilità di variazioni. Le parole introdotte nella “barzelletta”, in coda agli ottonari, hanno la funzione di modellare la rima, baciata o assonante, dell’ottonario seguente. Di queste brevi espressioni, essenzialmente foniche, le più usate sono: “e bbà”, “e ccòre” (e cuore), “e Anna”, “e nnella” (e Annella), “e llèna” (e Elena), “e arena”, ecc. Questi brevi stereotipi non presentano dal punto di vista letterale nessuna attinenza col senso logico del verso, o col senso di tutta la canzone stessa, sebbene non sia difficile individuare in essi richiami codificati dei vocalizzi tipici del linguaggio della seduzione).

non tirare che si spezza
hai una spina sotto il piede
e ce l’hai e bbì e bbà
salta il muro e vieni qua
un bacio in bocca ti devo dare

- … per la cima e chi per la radice
chi per la cima e chi per la radice
beato chi vince questa ragazza
questa ragazza è figlia di persona notabile

- … questa ragazza è figlia di persona notabile
e porta la gonna tutta di fiori
e nel petto porta e bbà
di sera e Napoli qui adesso

- e nel petto porta la stella Diana
stella Diana quando tu apparisti
l’aria annuvolata come la rischiarasti

- l’aria annuvolata la rischiarasti
a quel posto dove ti posasti
una fonte d’acqua santa facesti sorgere

- una fonte d’acqua santa facesti sorgere
chi vuole bere l’acqua di questa fonte
deve tenere i zecchini (soldi)
e deve tenere i zecchini

- e deve tenere i zecchini pronti contanti
i miei zecchini sono sempre pronti
quest’acqua mi voglio bere e Camilla
un canarino e un cardellino
uno grida e l’altro strilla
un altro fa il diavoletto

- quest’acqua mi devo bere sia che mi faccia vivere sia che mi faccia morire…


Questo canto è uno dei più diffusi e conosciuti nella tradizione popolare campana. L’accentuata emblematicità dei suoi versi ci porta a ricercare una possibile chiave di lettura nel tessuto simbolico-magico del mondo popolare napoletano.

Il primo segno che vi si legge è una “scarola che nasce dal mare”. Innanzitutto va detto che la “scarola” o lattuga, è una pianta alla quale la tradizione popolare attribuisce molti significati e straordinari poteri curativi e magici.
(In una favola popolare campana, addirittura una fanciulla si ingravida dopo aver mangiato una “scarola”. Evidentemente per tali motivi la “scarola” si trova nella tradizione popolare della Campania come tipica pietanza rituale del Capodanno, con evidenti significati augurali e fecondanti. Non a caso il popolo napoletano con il termine “scarola” indica scherzosamente il sesso femminile di una fanciulla.)
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Questa magica “scarola” nasce dal mare come antica divinità femminile, apportatrice di fertilità. A conferma di ciò, la prima strofa ci ritrae l’immagine suggestiva di una stella caduta in mezzo al mare, dal cui contatto nasce una bellissima fanciulla con i capelli “ricci” e gli “anelli” alle mani.
Ed è ancora all’immagine dei capelli “ricci” che il popolo associa la magica “scarola”.
Gli “anelli” poi, oltre che segno femminile, rappresentano un evidente segno nuziale e auguralmente fecondante.
I versi introducono poi un segno di contrasto, i “turchi”, che nella tradizione indica il colore “nero”, il maschio contrapposto alla femmina, il fallo sotterraneo, l’oscurità contrapposta alla luce o la notte contrapposta al giorno.
In altri termini i “turchi” rappresentano anche esseri che stanno al di là del mare, ed in questo sono associati alla morte, ad una morte o una violenza naturale che viene da un altro mondo (in ciò collegabili anche alle storiche incursioni sulle spiagge della Campania).
A Maiori, località della Costiera Amalfitana, sui cui alti monti c’è un Santuario in cui si venera la Madonna Avvocata, si è tramandato uno stile di tammurriata che va ricondotto alla storia delle invasioni turche. Infatti è l’unica zona della Campania dove la performance della tammurriata è eseguita da un gruppo, anche molto numeroso, di “tammorrari” (coloro che suonano la tammorra), piuttosto che da uno solo. Questa caratteristica mette l’accento sulla funzione di “segnale d’allarme” che assumeva il fragoroso battito delle tammorre, quando s’intravedevano all’orizzonte le navi dei turchi.

Eppure sempre dallo stesso mare (elemento originario di tutto), nasce, oltre che il pauroso e notturno segno dei turchi, anche la luminosa scarola-fanciulla, generata dalle mistiche nozze del cielo e del mare.
A questa divinità femminile si associano altri elementi quando si parla di una “stella Diana” che brilla sul suo petto.
Ecco allora l’evidente segno solare indicato nella stella come luce e fuoco, peraltro da collegare anche a un mondo celeste.
Tuttavia, se la stella porta con sé una chiara simbologia solare, il segno “Diana” si associa anche ad un antichissimo segno notturno e lunare.
Ad evidenziare ulteriormente questo significato “doppio” della simbologia espressa, contribuisce il verso successivo: «Chi per la cima e chi per la radice». Qui è introdotto il “doppio” costituito dagli elementi “alto” e “basso”, ossia la doppia componente nello stesso personaggio, divino in senso celeste e sotterraneo in senso di vita e di morte, di luce e di tenebre.
Ed è «beato chi la vince», come dice il verso successivo, nel senso che è felice chi conosce lei in tutti i suoi aspetti, nella vita e nella morte, in quanto tutto fa parte di un solo soprannaturale che poi s’identifica nella totalità della natura stessa.
In tal senso, perfino il segno dei “turchi”, apparentemente negativo, diventa segno naturalmente associato alla fanciulla e che, nell’inevitabile contrapposizione tra notte e giorno, morte e vita, si riconduce ad un naturale e semplice gioco: «i turchi se la giocano a primiera».

L’analisi del testo di una tammurriata, come abbiamo visto, è estremamente affascinante e coinvolgente perché con essa riusciamo a tracciare una mappa dell’articolato corredo simbolico della cultura contadina campana.
Tuttavia la sola analisi del testo, sebbene approfondita, non esaurisce tutto il significato o la funzione della tammurriata. Infatti per avere un’idea completa e soddisfacente di quest’arcaica espressione contadina non possiamo prescindere dal “contesto”.
Proprio in quanto fenomeno “multimediale”, proprio in seguito alla polisemia dei messaggi che lanciano gli artefici di questa espressione, è necessario considerare nel loro insieme sia gli elementi del testo, sia quelli gestuali delle mimiche e dei balli, sia l’ambiente in cui avviene tutto ciò.
Quindi non avremo mai un’idea precisa di cosa sia una tammurriata fin quando non ci rechiamo sul posto del pellegrinaggio, al tale Santuario, o nei pressi di tale grotta, luoghi in cui la tammurriata è suonata, cantata e ballata per ore intere, da tarda sera fino all’alba.

TRA SOGNO E REALTÀ: LA FESTA

Riporto alcuni estratti della testimonianza di Roberto De Simone, il maggior studioso della tradizione napoletana, sulla festa per la Madonna di Materdomini, una delle feste più belle della Campania. Una festa notturna che si svolge nella zona di Nocera – Salerno tra il 14 e il 15 agosto. Durante questa festa si venera un’antichissima immagine della Madonna e si balla davanti al Santuario. Di Materdomini si parla fin dal Medioevo.



“… più volte mi avevano parlato di questa bellissima festa notturna, descrivendola con i termini più entusiastici di questo mondo. E fu così che la notte del 14 agosto, decisi di mettermi in viaggio e raggiungere entro le ventitré ore il luogo della festa nei pressi delle campagne presso Nocera dei Pagani.
A chi vi si reca per la prima volta, il viaggio può sembrare molto lungo, e invece vi rimane breve nel ricordo, quasi fosse stato un sogno, tra gruppi di giovanelli che vi si recano essenzialmente per ballare, donne anziane con figliole più giovani, e uomini a due, a quattro, a comitive, che per le campagne, senza che gli si domandi nulla, vi indicano nel buio il percorso da fare…

… Improvvisamente si arriva come ad un’antica porta di città, e allora, come per incanto mi ritrovai davanti ad una strada luminosissima, in salita, dove una folla di persone camminava fra due lunghe file laterali di tavole imbandite, di frutta esposta, di limoni, di piante e di mille e mille odori…

… In questo cuore della festa, volsi uno sguardo alle tavole imbandite dove, in onore di Nostra Signora di Materdomini, si mangiano a sazietà (benché tutte di magro), un’infinità di pietanze che indicano una veglia corale di trapasso, una vigilia di miracolo, un’attesa millenaria. Eppure, in tutto ciò niente vino, ché non è festa da vino, né può bersi in una notte come questa.
Spinto in questo corpo di folla, arrivai finalmente al luogo santo, dove ecco una grande facciata illuminata fantasticamente, due grandi porte di un tempio spalancato, e un’area antistante dove sembra doversi radunare tutta la gente del mondo.
All’interno, verso Oriente, scorsi l’immagine venerata, quella che nella festa è il centro dell’attenzione e della devozione di tutti. Tutti infatti vi passano dinanzi in questa notte e qui depongono le loro devozioni, la loro natura, il loro trasporto.
E sono genuflessioni e percorsi in ginocchio fino a Lei, situata sotto un ricco baldacchino di marmi preziosi, mentre nell’aria risuonano i canti che la appellano “La Signora”…

… Intorno al prezioso tronetto della “Signora” gira dunque la folla dei tanti pellegrini i quali, dopo aver deposto l’omaggio rituale, con la mano sinistra sfregano la pietra che è alle sue spalle e poi si toccano il viso, il collo e la testa, quasi a trasmettere al proprio corpo l’essenza magica e divina della pietra stessa…


… Riconobbi allora Antonio, il grande suonatore di tamburo, il quale battendo il ritmo già da una mezz’ora, cominciava ad atteggiare quella sua strana espressione estatica e a volgere gli occhi verso l’alto, verso un qualcosa che solo lui sembrava scorgere.
Intorno a lui si scaldò l’ambiente, si formò un gran cerchio di persone e tutto sembrò muoversi sullo stesso binario ritmico imposto da Antonio o imposto ad Antonio da tutti i presenti.
A un certo momento, quando il ritmo crebbe d’intensità e pareva far ondeggiare anche le pietre, ecco un giovane sui diciotto anni, il quale sollevando la maglietta fino al petto e scoprendosi nudo fino alla cintura dei pantaloni, incominciò a dimenare i fianchi alzando le braccia e socchiudendo gli occhi e la bocca tra l’entusiasmo degli occhi dei presenti sempre più lucidi, eppure senza che nessuno avesse bevuto vino.
Al movimento di questo giovane, un altro ragazzo più aggressivo, capelli rossi e grida di entusiasmo folle, si gettò nella danza, circuendo il primo danzatore e mimando con la lingua mille inviti alle sue membra impazzite dal ritmo.
All’unisono, il battito delle mani di tutti seguiva il tamburo di Antonio che, con lo sguardo sempre più perso nel vuoto, assorbiva il peso ritmico di tutti i presenti. Lo sforzo della sua immane fatica a suonare per ore intere senza interruzione sembrava quasi nullo se non fosse stato per quei rivoli di sudore che gli colavano dalla fronte e che egli faceva scivolare lungo il viso scuotendo la testa di tanto in tanto. Solo allora, quasi come per un rito, uno dei presenti con un asciugamani bianchissimo gli tergeva il volto e la fronte senza che egli interrompesse nemmeno per una battuta il ritmo esaltante della danza.
A un tratto, chissà come mi accorsi che si cantava, e allora scorsi i due cantatori che lanciavano i loro canti religiosi di un erotismo magico e misterioso, presente ed incorporeo come la danza di quei due giovani che sembrava dipinta nell’anima di tutti i presenti, o sembrava scolpita negli occhi della stessa immagine di Nostra Signora…





… nella notte di questa festa le persone non appartengono a se stesse proprio perché appartengono al corpo unico di tutto il mondo…

… Man mano si aggiunsero altri danzatori. Uno in particolare chiamato Angelo: basso, tarchiato, con gli occhi obliqui come quelli di una capra e le mani nodose come il legno delle stesse castagnette che ostinatamente egli faceva scoppiettare.
Con gesti solenni eppure violenti, Angelo mimava mille atteggiamenti con un altro uomo dal viso impassibile, gli occhi bassi e le labbra atteggiate ad un fisso ed ambiguo sorriso. Ed erano gesti d’invito, di incontro, di fuga, di compiacimento ora succubi, ora aggressivi.
Ed ecco Alfonso accesissimo in viso, con le sue espressioni singhiozzate: «Oi' Maro' … ne' Maro' ».
Ed ancora Virginia con i suoi canti gutturali e tutti a farle eco e la santa immagine esposta sempre più viva, luminosa e presente.
A mezzanotte, culmine ed inizio della festa, le danze e i canti presero il loro più vero ed antico aspetto orgiastico. I suoni e i ritmi giunti al loro “zenit” rimasero tali fino al sorgere dell’alba, tra le espressioni erotiche, le danze sfrenate, i cembali, i tamburi, le nacchere, e infine le grida di persone che imitavano il raglio dell’asino, il nitrito del cavallo, lo squittire degli uccelli e il verso delle oche e delle galline. Tutti gli animali che qui sembrano trasferiti nelle persone intervenute alla festa, o ancora tutte le persone quasi trasformate negli animali già nominati.”





Nelle parole di De Simone ritroviamo lo spirito della cultura campana sintetizzato nella maniera più completa e appassionata.
Prendiamo coscienza di cosa sia veramente una festa contadina: un evento che si realizza in uno stato alterato della percezione spazio-temporale, in un “tempo straordinario” separato dal “tempo ordinario” della quotidianità, e ad esso complementare.






Possiamo osservare inoltre i segni delle usanze imposte dalla Chiesa cattolica: il magro, l’assenza di vino; e in contrapposizione i ben più numerosi segni derivati dai culti pagani:

- l’immagine della Vergine esposta “verso Oriente”, il luogo dove sorge il sole, simbolo di nuova vita e di fertilità, e richiamo alle più antiche civiltà, come quella egiziana;
- l’atteggiamento dei fedeli, in cerca di grazia, che percorrono in ginocchio l’intero Santuario, o che sfregano la pietra su cui è disposta la sacra immagine “e poi si toccano il viso, il collo e la testa, quasi a trasmettere al proprio corpo l’essenza magica e divina della pietra stessa”;
- il loro appellarsi alla Madonna come “La Signora”, che ha un richiamo evidentissimo alla “Grande Signora d’Oriente”, l’antica e pagana Diana;
- la danza estatica del giovane diciottenne, che si scopre il petto e che si dimena sui fianchi alzando le braccia e socchiudendo gli occhi, non può non farci venire in mente la danza pagana di re David davanti alle Tavole della Legge, in onore del suo dio, il Dio dei cristiani;
- le grida e gli atteggiamenti animaleschi dei “posseduti”, che ricordano l’ebbrezza dei baccanali e l’abbandono erotico delle orge dionisiache.




CONCLUSIONI


Tutto è rivolto alla “Figliola” come vergine, madre, sorella, sposa, come terra, albero, orto, giardino, rosa, fontana, pozzo, come montagna, castello, palazzo, casa, chiesa, e come Sole e Luna, come barca, fiume, mare in cui perdersi, annegare; ma anche viaggiare e poi tornare, come grotta, caverna dalla quale si è nati ed alla quale si vorrebbe sempre ritornare.

Solo così si capisce la funzione della tammurriata che nella sua concitazione esprime il costante desiderio, da parte di chi la esegue, ovvero da chi la vive, di salire fino alla “Figliola” per stare finalmente tra le sue braccia.

Ma la “Figliola” è sempre alta montagna, torre, palazzo o castello impenetrabile, o penetrabile solo nel momento della morte, perché è nello stesso grembo della terra che si ritorna.

Ho definito sopra due elementi-chiave della cultura contadina campana: il rapporto dialettico tra gli opposti, e la coesistenza di catene di doppi significati.

Per concludere voglio introdurre un terzo elemento-chiave che inquadra perfettamente l’universo psicologico dei contadini campani: “tutto si può rovesciare”. In questo motto di saggezza popolare possiamo individuare la componente teleologica del pensiero contadino: «I miei grossi sacrifici saranno compensati con un premio finale!». E così la nera sorella-montagna-vergine-brutta, diventa la più bella delle sue sei sorelle, proprio perché è nello stesso tempo vergine e madre, in grado di partorire anche le sue stesse sorelle.

Ed è sempre a lei che si tende, lei che sta in alto su una montagna o giù in una valle, o nel mare o sotto terra, comunque sempre al di là di chi vorrebbe raggiungerla pur avendo paura di raggiungerla. E per raggiungerla al di là si passano i ponti, si traversano i fiumi, si varca il mare in un eterno viaggio di andata e ritorno, come il moto dell’onda sulla spiaggia, come il coito di un universo di angoscia e di amore.
d.f. son sette sorelle, 2011


 
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